piero SIMONDO / manica a vento / 24.5.2014 - 28.6.2014
balestrini centro arte cultura contemporanea - via isola 40 - albissola marina (sv)


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                                                     IMPRESSIONE
                                                     ESPRESSIONE

Non è agevole catturare entro una sola mostra un artista come Simondo, così da coglierlo in una rappresentazione organica e in una comprensione, se possibile, esaustiva. Questo è ciò che un curatore o un critico gradirebbero, quanto meno per ribadire la convinzione, pur nelle differenti declinazioni cronologiche, nella sostanziale continuità del suo operare e la sua coerenza nello scandagliare alcuni momenti pittorici decisivi.
Vero è che ogni volta Simondo pare voler fuggire questo intento offrendo una proposta prodiga e multiforme, come a disorientare l’osservatore che, di ciclo in ciclo, si trova alle prese con nuove tecniche e nuovi esiti espressivi. Resta l’occasione per intuire quelle indicazioni che meglio ci avvicinano al senso più riposto di questa pittura, alla tempra dell’artista e ai suoi rapporti con le differenti situazioni storiche. La qualità e l’intensità del suo operato, in cui traspare quella tensione esistenziale che da sempre appartiene all’autore, reclamano questo tentativo. A supporto non manca una nutrita e disciplinata bibliografia che testimonia il diritto di presenza di Simondo al secolo. Col che mi sento autorizzato a saltare i preamboli e saggiare una descrizione del lavoro senza ripercorrere le vicende, pur imprescindibili, storicamente rilevanti e umanamente intense, che altri interpreti più autorevoli (tra tutti Sandro Ricaldone, Marisa Vescovo, Guido Curto, Francesca Comisso, Cesare Viel, etc.) hanno con rigore e puntualità filologica a più riprese ordinato.
E’ un fatto che per Simondo e per altri suoi compagni di ricerca si siano tracciate traiettorie e ricostruite coordinate, ma vorrei evitare l’uso di Simondo per fare altre digressioni. Badate: non è un giudizio di valore ma l’invito a fare una riflessione mirata sull’uomo e il suo cammino di ricerca.
Al primo punto dell’ordine del giorno inquadrerei lo sperimentalismo tematico, tecnico, psicologico e simbolico. Quattro aggettivi che sintetizzano un mondo. Tanto per cominciare, la sorpresa è la spontaneità dell’approccio che gli permette di far convergere questi caratteri in una ingenuità calcolata, in una immediatezza ottenuta, in una freschezza di notazione per le quali la sua pittura si fa portatrice d’arte proprio per la non prestabilita e preordinata costruzione. Un Simondo mobile, duttile, riflessivo ma anche pragmatico, immediato, sempre operoso, ”insofferente agli storicismi di pronto riutilizzo, senza desiderio di fissarsi in qualche categoria d’assoluto”, avrebbe potuto scrivere un Paolo Fossati.
Autonomia e sperimentazione. Ma di che e in quale orientamento? In direzione del tempo, credo. Memoria, spazio e tempo restano sospesi nei suoi lavori, in cui traspare la corrispondenza tra gesto e segno, tra intenzione e risultato, tra frammentazione e continuità. Il tempo non viene annullato da una organizzazione preliminare dello spazio dell’opera, ma si accompagna al suo completamento. Si tratta di cogliere l’intenzione di una particolare esperienza della forma, del segno e del colore.
La sua pittura è una costante riflessione sul come far emergere gli accadimenti primitivi, nel loro affondo culturale e antropologico. Possibilità a scarto o in alternativa ad altre esperienze. Per Simondo è chiaro che la pittura è luogo olistico di riflessione e anche e soprattutto d’azione, per raccontare l'equivalenza, la convivenza, la simultaneità dei materiali più diversi nel medesimo istante di esperienza. In un'unica sensazione. Virtù espressive da pittura pura.
La mostra è titolata “Manica a vento” (come una delle opere in mostra, datata 1975) e il particolare tipo di anemoscopio, a dire un rudimentale misuratore del vento, si fa qui metafora di una potenziale duplice lettura. Il tentativo di indicare direzione e intensità della ricerca espressiva in questa babele del postmoderno (o postcontemporaneo?!).
Prima, e forse anche un poco scontata interpretazione. Ma neppure poi tanto: la pittura di Simondo è inventario dei brandelli di mondo che ci arrivano da tutte le parti e il piacere – quasi fisico più che intellettuale – che si avverte nel contemplarla è il piacere di viaggiare in un universo senza confini, che è poi forse l’unico modo per visitare il nostro tempo.
Seconda lettura: la direzione indicata nell’occasione è la sua, o almeno quella della sua traiettoria espressiva, del modo suo proprio di intendere l’arte sin dai primi anni Cinquanta, in un copione di esempi e prove ordinate, come dovrebbe essere, in una mostra degna di questo nome. Tra spontaneità e controllo, tra componente emotiva e esigenza di determinare l’ordinamento dell’opera, la volontà espressiva di Simondo è lì a mostrarci anche uno scontro fra una formale stabilità del genere pittura e indagini libere di sperimentare, dissociando forma e colore, macchia e tono in favore di una maggiore plasticità, di una maggiore apertura e dinamismo.
A rischio di fare una critica buona per tutte le occasioni, non posso non giocarmi il termine espressionismo e lo uso proprio per quello che valeva allora, in bocca e per mano di chi meglio ne colse il significato. E sia pure espressionismo, ma in questo di Simondo mi pare di cogliere anche una sfumatura differente. Non so, magari sbaglio, ma nella sua pittura non riconosco unicamente partecipazione politica, impegno civile e denuncia, tratti che certo segnano costantemente il suo lavoro, ma pure, in maniera più sorgiva, espressività ed espressione.
Già nella tempera “Africa” del 1950 i due termini che ho sottolineato qualche significato ce l’hanno. Simondo si era già allora posto il problema di dare all’interno di un sistema pittorico delle varianti e il tema delle maschere come sdoppiamento, senza troppo indulgere in territori cari agli psicanalisti, ben si presta al problema della figura della pittura, di che cosa si fa e si può fare con la pittura.
Da quegli inizi la questione del peso dell’immagine è stata affrontata pienamente e a più riprese e sempre con nuove sperimentazioni: dai “Monotipi” alle “Ipopitture”, dai “Raschiati” agli “Ipofiltraggi”.
Il punto decisivo delle sue opere mi pare proprio questo. Superando assiomi espressionistici e postulati esistenziali, la valenza autobiografica della sua pittura, intesa come attenzione ermeneutica e culturale, rimane. Magari iterata alcune volte in forma più elegante, in altre occasioni con esiti più energici, pur sempre irrorata di dati personali. Un vivente che si trasforma immediatamente in vissuto. Attese e antefatti, emozioni e avvenimenti galleggiano tra gravità e leggerezza. Con una qualità di esecuzione che la mostra in questione pare restituire molto bene.

                                                                             Riccardo Zelatore